Due racconti (A. Manetta)

Il Fantasma

(A. Manetta, 2012)
Giunti alla pensione Irma nell’oscurità assoluta, Furia bussava alla porta e il signor Magni, quasi fosse un segnale convenuto, apriva e ci faceva accomodare. Il locale era angusto ma accogliente, riscaldato da una stufa a legna scoppiettante, ed a quell’ora era deserto. L’omone, che indossava il cardigan beige sulla camicia scozzese anche d’estate, ci preparava con solennità il caffé con una fumosa macchina. Fra le gambe si muoveva un piccolo cane biondo, con zampette corte e di aspetto mordace. Dal retro comparivano le nipoti, due ragazze molto carine che ci guardavano come se fossimo dei pazzi. Al commiato Furia acquistava un bottiglione di vino e raccomandava di dare un’occhiata alla vettura sola soletta nel piazzale. Quindi, carichi di ogni cosa, risalivamo l’abetaia in fila indiana, Furia in testa e il signor Bossi ultimo. Con la neve capitava di affondare oltre i ginocchi o di scivolare sulla superficie ghiacciata. Il sudore si ghiacciava nei capelli. Non c’era impronta umana, il silenzio era interrotto dai tonfi dei blocchi che si sfaldavano dai rami.
Accadde una sera col cielo coperto da nuvole fratte e la luna che occhieggiava fra gli squarci e i rami degli abeti, che alla carovana parve di sentire un pestare di strame, quasi uno stropiccio di mani. Partì l’ordine del prof: “Sig. Bossi canti”. Non comprendemmo il motivo, ma Bossi intonò subito a gran voce “Urla il vento, soffia la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar …” poi, nella luce della torcia, vedemmo un fantasma proteso verso di noi. L’apparizione ci lasciò sgomenti. Piano piano, col signor Bossi che continuava a cantare e Furia che già aveva la mano sul fodero della pistola, ci avvicinammo e il fantasma si svelò essere nient’altro che un ramo di abete carico di neve fino a toccare terra, che ondeggiava ora apparendo ora scomparendo alla vista con mosse a dir poco umane. I suoni erano i turbini di aria calda che uscivano dalla bocca di una grotta nelle vicinanze.
Quella sera l’uscita dal folto del bosco ci parve ancora più bella, nonostante il cielo da venerdì santo, e la capannina fu una tana quanto mai rassicurante, dopo lo spavento toccatoci.

Fame

(A. Manetta, 2012)
La salita fu preparata con la massima cura, ogni compito definito in dettaglio, anche per le cibarie. Partimmo in poche autovetture sovraccariche di persone e vettovaglie; sembravamo profughi in cerca di una nuova patria. Furia in testa governava l’andatura degli altri, accelerando o diminuendo velocità ad ogni curva. Finalmente giungemmo alla base del pratone di vetta. In alto ci attendeva l’agognato ristoro.
Per ascendere il pratone Furia tagliava la pendenza girando a destra e a sinistra, seguito da tutta la fila. Io tenevo in mano i termometri geotermici e in uno dei tornanti scivolai. Che botta, ma il timore non fu per le mie caviglie acciaccate bensì per i preziosi termometri che riuscii ad alzare per non fracassarli.
Giungemmo sudati e stanchi, in un luogo ignoto. Il primo pensiero fu dove appartarci per i bisogni. Decidemmo che le ragazze sarebbero arrivate agli alberi, e i maschi si sarebbero spostati verso le rocce di vetta. Il bello venne dopo, quando ci accorgemmo che nell’eccitazione della partenza alcuni avevano dimenticato il cibo. I Manetta avevano un bastone di pane francese, due mozzarelle e tanta insalata, cicoria a pannocchia bianca. Né olio, né aceto e nemmeno sale. Avevamo però un vaso di ragù da 2 lt. .
I morsi della fame si facevano sentire. Su una mensolina vidi una bottiglietta d’olio, e mi misi all’opera. Tagliai a fette il pane, una fettina per ciascuno, e la mozzarella; misi l’olio in padella e feci friggere il pane con la mozzarella. Il profumo si diffuse invitante e tutti mangiarono lodando il mio “pane in carrozza”. L’insalata intinta nel ragù soddisfò i più famelici.
Ad un certo punto, ricordandosi della mancanza di olio, Furia, che pure aveva mangiato, mi chiese con fare indagatore dove lo avessi trovato. Spiegai della bottiglietta sullo scaffale e scoppiò il trambusto: era olio per lubrificare gli strumenti, avrei potuto avvelenare tutti o provocare un mal di pancia generale! Forse successe, perché le corse verso i ripari igienici furono molte e ripetute. Comunque nessuno si lamentò
, anzi, furono tutti contenti di aver mangiato quando sembrava che lo stomaco sarebbe rimasto vuoto. A me resto un grande senso di colpa. Furia capì le mie buone intenzioni, ma da allora tassativa fu la disposizione dell’etichetta: ogni recipiente doveva recare un cartellino indicatore del contenuto.

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